Non farti mai imporre la loro narrazione, disse a se stesso, inutilmente.
L’aveva sentita arrivare: vaghi allarmi, notizie ancora lontane.
Poi la vide avvicinarsi, ne intuì la vocazione.
Io sarò tutto, proclamava.
E aveva ragione: era nata per travolgere, schiacciare, soffocare, sovrastare.
Le prime fanterie furono sbaragliate in modo tragicomico, tra un involtino primavera e una birretta sui Navigli milanesi.
Il tempo di guardarsi attorno, di scoprirsi già accerchiati.
Voci metalliche, elicotteri.
Ma la televisione – cantava Lucio Dalla – ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione.
“Garage Olimpo”, il cupo film di Marco Bechis, parlava ancora di abissi materiali, l’inferno argentino quasi ingenuo degli orrori caserecci di una dittatura atroce che ti faceva scomparire, poteva ridurti a pezzettini nelle cantine dell’Esma e poi scaraventarti
da un aereo oltre l’estuario della Plata, in mare aperto.
Ora è come se fossero scomparsi tutti quanti, ma volontariamente: senza colpo ferire.
Tutto ormai scorre silenziosamente, in tempi di sofisticazione digitale, di auto senza rumore e quasi prive di pilota, di droni sapientissimi e algoritmi.
Gironi grigi e ammutoliti, bocche bendate e infagottate.
La parodia scolastica affidata alla mestizia di lezioni fantasmatiche, grazie alla connessione solo digitale del codice binario che dà vita al monitor.
Tutti nell’Orrida Gheenna, sotto forma di influenza universale.
Triste ironia, per chi smaniava di poter essere virale, come se fosse una virtù, una fantastica conquista, dentro la planetaria smaterializzazione progressiva di qualsiasi cosa
avesse ancora addosso il vecchio odore di umanità possibile, e dunque
impresentabile.
Del mondo antico, quello più familiare e tridimensionale, restano quasi solo le affabili menzogne dell’affabulazione giornaliera, con il sinistro contorno di ululati e feretri.
Menzogne virtuali a badilate, a once, a tonnellate:
le tenebrose fantasie di ogni leggenda, l’antologia di aneddoti che annebbia qualunque palingenesi presunta.
Imporre un solo tema, sempre quello, per un anno e oltre: anche per sempre, stando agli umori dei peggiori aruspici.
Imporre il modo di pensare, di vestirsi, di parlare e respirare, di calcare marciapiedi e magazzini.
Imporre l’orizzonte, dopo aver plasmato su misura ogni sussurro, ogni recondito sentire, persino l’aritmetica drogata di elezioni presentate come cruciale appuntamento escatologico, spada d’arcangelo a separare il bene e il male.
Nelle paludi torbide, gli alligatori ancora ufficialmente addetti alla politica si limitano oggi a un agitarsi goffo,
tra le sabbie di un’impotenza definitivamente conclamata.
Sono ben altri, lassù, a disegnare traiettorie concepite per convogliare in modo conveniente tutto il bestiame umano, che ancora non capisce e perde tempo ad azzuffarsi in liti di cortile.
Se il piano infine non sarà condotto a termine, non sarà merito di alcuna schiera di soldati semplici.
Ci sono pure quelli, dotati di animo ribelle: hanno imparato a farsi ben valere, ma restano sparuta minoranza.
Intanto ha vinto l’onda anomala, la vibrazione scura concepita come alibi per la dominazione ultima, imposta col terrore.
Ha vinto la paura, la quiete artificiale dell’allevamento in cui trionfa la superstizione.
Niente è credibile, nell’assordante macrocosmo delle frottole:
le rare verità ormai sfuggono a qualsiasi radar, non trovano parole capaci di bucare le corazze della sordità atterrita.
Ancora si ragiona di cerotti, aghi e svariate altre stupidaggini, mentre i signori dell’imperio giocano all’onnipotenza, all’illusoria eternità televisiva, trafficando coi loro palinsesti, le loro facce di cartone, i loro numeri truccati.
Chi mai l’avrebbe detto, un anno fa, che avrebbe dilagato in modo così folle e incontrastato il totalitarismo della narrazione unica, prescritta dalla sera alla mattina, per decreto?
E’ come essersi scordati di avere corpo e gambe, raziocinio, cuore.
Sostanza umana di memorie, dignità di esistere.
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