18 giu 2018

Messi male

di Ashoka Mody, 12 giugno 2018

Il sisma finanziario italiano sta ricominciando a rumoreggiare minacciosamente.
I rendimenti dei titoli di stato a 10 anni, che avevano per un breve periodo raggiunto il 3%
quando il Presidente Sergio Mattarella aveva temporaneamente impedito la formazione del governo 5 Stelle – Lega,
sembrano destinati a salire ulteriormente, gettando potenzialmente l’Italia e l’eurozona in una crisi ingestibile.


L’Italia non è solo un paese con delle grosse difficoltà, è anche un paese molto grande.
Il suo caotico settore bancario è il terzo dell’eurozona, dopo quelli di Francia e Germania.
Il debito di 2,5 mila miliardi di euro del governo italiano ha circa lo stesso valore del debito francese e tedesco,
ed è superiore alla somma dei debiti pubblici di Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, i tre paesi che hanno avuto bisogno di salvataggi finanziari.
Una crisi finanziaria in Italia distruggerebbe rapidamente le linee di difesa costruite dalle autorità dell’eurozona.


Questa situazione non era inevitabile.
Negli anni ’90 gli osservatori più attenti avevano capito che aderire all’eurozona non era stata una buona idea per l’Italia.
Né lo erano stati rinunziare alla propria politica monetaria e alla propria moneta, la lira.

Nel corso di tre decenni, dal 1970 al 1990, la lira aveva perso progressivamente l’80% del suo valore rispetto al marco tedesco.
All’inizio del nuovo millennio l’Italia subiva la competizione delle economie emergenti dell’Est Europa e ancor più della Cina.
Incapace di accelerare la crescita della produttività, l’Italia ricorreva a svalutazioni della lira.


Nonostante questo i maggiori economisti e operatori finanziari italiani insistettero veementemente per entrare nell’eurozona.
Aderivano ciecamente alla prospettiva del cosiddetto “vincolo esterno”.
Insistevano sul fatto che, in mancanza di una via di fuga tramite la svalutazione della lira,
i leader politici italiani non avrebbero avuto altra scelta se non quella di imporre buone politiche fiscali e strutturali,
politiche che assicurassero un futuro migliore agli italiani.

Gli studiosi dell’Unione Europea, come Kenneth Dyson e Kevin Featherstone sostengono che Mario Draghi,
l’attuale presidente della BCE, allora direttore generale del Ministero del Tesoro italiano, “credeva con tutta l’anima”
che l’euro avrebbe costretto i governi italiani a quella disciplina di cui l’Italia aveva tanto bisogno.


Prevalse in questo modo lo spirito della “hubris” [la “tracotanza” in greco, NdT] e l’Italia entrò nell’eurozona fin dal suo inizio, il 1° gennaio 1999.
I litigiosi governi italiani, però, non avevano la pazienza e la tenacia di gestire i problemi endemici del paese.
L’economia italiana cadde a quel punto in uno stato di crescita zero della produttività, e nonostante i potenziali benefici
della vivace crescita dell’economia mondiale a partire da metà 2003, il tasso di disoccupazione alla vigilia della crisi finanziaria globale del 2007 era quasi al 7%.
Le banche italiane registravano scarsi profitti, e il debito pubblico rasentava il 100% del PIL.


La crisi globale del 2007-2009, e poi la crisi dell’eurozona del 2011-2013 hanno ingigantito
le fragilità economiche e finanziarie di cui l’Italia soffriva prima dell’euro.

Il difetto fondamentale della costruzione dell’euro era venuto a galla:
non esiste un’unica politica monetaria che possa funzionare al tempo stesso per la forte economia tedesca e per la sempre più pericolante economia italiana.

A peggiorare le cose, la BCE adottò una politica monetaria molto più restrittiva sia rispetto a quella della Federal Reserve americana sia a quella della Banca d’Inghilterra.
Arrivati alla metà del 2011, per di più nel mezzo di una pretesa di austerità decisamente eccessiva da parte delle autorità dell’eurozona,
l’Italia avrebbe avuto disperatamente bisogno di una politica monetaria più flessibile e di una ampia svalutazione dell’euro.


L’Italia non si è mai più ripresa da quel trauma.
Nel luglio 2012, Mario Draghi, il presidente della BCE, aveva provato a risanare le ferite
con la sua altisonante promessa di fare “whatever it takes” [“qualsiasi cosa sia necessaria”, NdT] per salvare i paesi dell’eurozona.
Questo portò allo scudo delle Outright Monetary Transactions, che implicavano la promessa che la BCE
avrebbe acquistato quantità illimitate di titoli di debito dei paesi membri.
Ma nonostante questo abbia calmato i mercati, i tassi di interesse italiani restavano troppo alti,
e questo, combinato a una spietata austerità fiscale, ha gettato l’economia italiana in recessione.


Con la BCE che continuava a fornire scarso stimolo monetario, il tasso di disoccupazione saliva, raggiungendo il 12% verso l’inizio del 2013.
I posti di lavoro, laddove c’erano, erano precari, e, con un senso di disperazione, sempre più italiani smettevano di cercare lavoro.
Per troppe persone lo stress finanziario si era fatto troppo acuto. I sentimenti anti-europei si diffondevano.
Nelle elezioni del febbraio 2013 il partito anti-establishment e anti-euro chiamato Movimento 5 Stelle emerse prepotentemente come forza elettorale, raccogliendo un quarto dei voti.


La patologia economica definitiva è subentrata quando la BCE ha rifiutato di equiparare il programma di acquisto titoli definito
Quantitative Easing (QE) agli stessi termini di quello che la Federal Reserve americana aveva iniziato nel dicembre 2008.
Avendo già sofferto una contrazione di quasi il 5% del PIL dalla fine del 2011, l’economia italiana fu spinta in deflazione entro la metà del 2013.

Se è vero che una bassa inflazione è di solito preferibile, un’inflazione troppo bassa fa sì che le persone posticipino gli acquisti,
che la crescita economica rallenti ulteriormente, e che il peso del debito salga. Questo è precisamente ciò che è avvenuto in Italia.

Quando la BCE ha introdotto, molto tardivamente, il QE nel gennaio 2015, l’Italia era già in una trappola deflattiva:
aspettandosi una bassa, se non nulla, crescita dei prezzi, gli Italiani evitavano di spendere, e questo manteneva l’inflazione ancora più bassa.


Oggi l’economia italiana è in bilico.
Con un tasso di inflazione bloccato attorno allo 0,6%, le famiglie e le aziende italiane hanno dei tassi di interesse reali (cioè corretti per l’inflazione) che sono oltre il 2%.
Non possono permettersi tassi di interesse così alti, però, perché la produttività dell’economia è rimasta stagnante per anni,
in combinazione con un drastico declino degli investimenti negli anni della recessione,
e questo ha fatto sì che le previsioni di crescita del PIL siano inferiori all’uno percento nel corso dei prossimi tre o cinque anni.
Per di più, con il rallentamento della crescita globale, il livello di crescita del PIL italiano potrebbe anche ricadere in zona recessione.
Se ciò avvenisse, i debitori farebbero ancora più fatica a ripagare i crediti dovuti alle banche italiane perennemente in affanno.
Il gettito fiscale del governo crollerebbe, rendendo ancora più difficile ripagare il debito.


Se l’Italia ricade ancora nella crisi, la BCE, a differenza che nel luglio 2012, avrebbe ben poche possibilità di disinnescarla.
In linea di principio la BCE potrebbe acquistare una quantità illimitata di titoli italiani, e questo ridurrebbe i tassi di interesse e farebbe sparire la crisi.
Ma detenendo già un quarto del debito pubblico italiano, la BCE correrebbe il rischio di incorrere in danni ancora maggiori in caso di default.


I funzionari del Nord dell’eurozona, e specialmente i tedeschi, sono in ansia, temendo di dover sostenere, alla fine, i costi delle perdite della BCE.
Loro vogliono mettere fine al QE. Anche Peter Praet, il capo economista della BCE, è pronto a dichiarare l’obiettivo raggiunto:

l’economia dell’eurozona si è stabilizzata e l’inflazione ricomincerà presto a crescere, dice.

Queste previsioni ottimistiche ignorano i segnali di rallentamento della crescita dell’eurozona.
Non tengono conto, soprattutto, della trappola nella quale si trova l’Italia.

Se la BCE termina il QE, l’euro diventerà ancora più forte e i tassi di interesse reali dell’Italia aumenteranno ulteriormente, peggiorando la fragilità finanziaria italiana.
In questo contesto il ricorso alle (non ancora utilizzate) Outright Monetary Transactions
avvierebbe delle trattative litigiose sull’austerità fiscale con il governo italiano,
e creerebbe una crisi politica ancor prima che la BCE possa porgere un qualsiasi aiuto finanziario all’Italia.


Le priorità politiche del nuovo governo italiano sono palesemente contrastanti con le necessità di bilancio.

Ma detto semplicemente, una volta che l’Italia è inopportunamente entrata nell’eurozona, la tragedia era già scritta.

Ora le faglie del terremoto italiano minacciano di scatenare un effetto domino sull’eurozona e il sistema finanziario globale.
Una recessione italiana potrebbe creare una tensione insostenibile al sistema bancario del paese, che è ancora schiacciato sotto il peso dei crediti in sofferenza.
Un crack di qualche banca potrebbe produrre delle linee di frattura in tutta Europa.
Ad aggiungersi ai guai, un rallentamento del gettito fiscale aumenterebbe il deficit di bilancio del governo,
spingerebbe gli investitori a chiedere tassi di interesse ancora maggiori, e metterebbe l’economia e le banche sotto un’ancora maggiore pressione.


Date le sue ampie dimensioni e le sue profonde vulnerabilità,
l’Italia potrebbe spingere l’eurozona e il mondo intero dalla parte sbagliata del punto di non ritorno.