Il 5 settembre il segretario di stato americano John Kerry ha
telefonato al ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, avvertendolo di
non intensificare il sostegno militare al governo siriano.
Kerry ci è andato giù pesante, dicendo a Lavrov che le azioni della
Russia potrebbero “portare alla perdita di altre vite innocenti,
all’incremento dei flussi migratori e al rischio di uno scontro con la
coalizione che lotta contro lo Stato islamico in Siria”.
Finora Mosca si è limitata a inviare in Siria una squadra militare di
quelle che solitamente vengono dislocate per preparare l’arrivo di un
contingente molto più grande.
Ha anche mandato un centro di controllo del traffico aereo e alcune
unità abitative per il proprio personale presso una base aerea siriana.
Questo significa probabilmente che i russi si stanno preparando a intervenire per salvare il presidente Bashar al Assad.
Nei quattro anni di guerra civile in Siria, il Cremlino ha fornito ad
Assad sostegno diplomatico, aiuti economici e armi, ma questo non è più
sufficiente.
Ci vorrà almeno una rapida consegna di armi pesanti, e forse anche
l’intervento dell’aviazione russa in sostegno all’esausto esercito
siriano.
Ne hanno davvero bisogno.
Da maggio, quando i jihadisti del gruppo Stato islamico hanno
conquistato Palmira nel centro della Siria, hanno continuato ad
avanzare verso ovest a partire dalla loro nuova base.
Un mese fa hanno conquistato la città a maggioranza cristiana di Al
Qaratayn, a nordest di Damasco (i cui abitanti, naturalmente, sono
fuggiti).
E ora le truppe dello Stato islamico sono a trenta chilometri dalla M5,
l’autostrada che collega Damasco con le altre parti della Siria che
sono ancora sotto il controllo del governo.
Tra l’altro, se i jihadisti hanno conquistato Palmira è perché la
“coalizione contro lo Stato islamico” (in pratica l’aviazione
statunitense) non ha lanciato neanche una bomba per difenderla.
Ha effettuato almeno mille missioni per difendere Kobane, la città
curda al confine con la Turchia assediata dai combattenti del gruppo
Stato islamico, perché i curdi erano alleati di Washington.
Palmira invece era difesa dai soldati di Assad, e quindi gli Stati
Uniti hanno lasciato che lo Stato islamico se ne impadronisse.
Si può facilmente immaginare l’orrore di Kerry (e di Obama) all’idea
che difendendo Palmira dessero l’impressione di star proteggendo il
brutale regime di Assad.
Ma se le truppe dello Stato islamico riusciranno a tagliare l’M5,
questo sarà visto come un segno dell’imminente sconfitta del governo.
A quel punto quasi la metà delle persone che ancora vivono in territori
controllati dal regime di Damasco (circa 17 milioni di persone)
potrebbero farsi prendere dal panico e cercare di lasciare il paese.
Tra questi ci sarebbero naturalmente le minoranze religiose (cristiani,
alawiti e drusi): cinque milioni di persone che hanno buone ragioni di
temere di essere massacrate, stuprate o ridotte in schiavitù dai
jihadisti.
Anche i milioni di musulmani sunniti che hanno servito il governo e l’esercito sarebbero in pericolo.
Quindi altri quattro o cinque milioni di profughi potrebbero riversarsi
fuori dai confini della Siria, aggiungendosi ai quattro milioni che lo
hanno già fatto.
Quel che si lascerebbero alle spalle sarebbe una Siria interamente controllata dai jihadisti.
A quel punto resterebbe solo da vedere se questi seguiranno la strada
dei profughi, attaccando il Libano e la Giordania, o se cominceranno a
combattersi tra loro. Tutti e tre i principali gruppi islamisti – lo Stato islamico (non
più sostenuto da Turchia e Arabia Saudita), il Fronte al nusra e Ahrar
al-Sham (che invece lo sono ancora) – sono praticamente identici per
quanto riguarda l’ideologia e gli obiettivi finali.
Hanno tuttavia alcune differenze tattiche: lo scorso anno lo Stato
islamico e il Fronte al nusra hanno avuto una disputa territoriale
piuttosto seria, che forse potrebbe tenerli impegnati.
Ma anche se così fosse, la Siria sarebbe perduta.
È questo il rischio che i russi vedono all’orizzonte ed è per questo che forse sono decisi a combattere.
Il 4 settembre, quando gli è stato chiesto se volesse farsi coinvolgere
direttamente nel conflitto siriano, il presidente russo Vladimir Putin
si è limitato a dire che la domanda era “prematura”.
Nessuno ama Assad, neanche i russi, ma è il male minore tra le possibilità che ancora rimangono.
Per essere precisi, è l’unica alternativa che rimane alla vittoria dei jihadisti.
La maggior parte dei ribelli “moderati” hanno smesso di combattere o
sono fuggiti all’estero, incapaci di competere con i jihadisti per
potenza di fuoco, risorse e atrocità.
L’idea che gli Stati Uniti possano creare una “terza forza” moderata
capace di sconfiggere sia i jihadisti sia Assad è un’illusione che
serve solo a salvare la faccia.
Mosca ha usato la diplomazia per salvare l’amministrazione Obama da
se stessa due anni fa, quando Washington era pronta a bombardare
l’esercito di Assad per rispondere alle accuse (forse non vere) secondo
cui questo aveva usato gas contro i civili.
Ma stavolta l’unico modo in cui la Russia può evitare il disastro è
mettere in campo le proprie forze aeree, e forse anche quelle di terra.
Se lo farà, la domanda principale sarà se gli Stati Uniti lasceranno
che sia la Russia a svolgere un compito che per loro è troppo spinoso o
se invece cederanno alle rimostranze degli alleati turchi e sauditi,
opponendosi all’intervento russo.
Dal momento che gli Stati Uniti non hanno una loro strategia coerente, è impossibile prevedere come reagiranno.
Nonostante le sbruffonate di Kerry, neanche a Washington sanno ancora cosa fare.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Morale della favola ? Che idioti questi americani .......o forse no ? Petrolio ? Gas ? Armi ? Ricostruzione ? Erba ?
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