26 ott 2021

Da dati ufficiali I.S.S. sono 3.783 i deceduti per covid

 Il cinque di ottobre l’Istituto superiore di Sanità 

ha diffuso un documento nel quale vengono analizzati i dati della pandemia, 

con precisione di cifre e di specificazioni.
 


La cosa ha subito sollevato molto clamore, 

perché risulta che i deceduti – nei quasi due anni di durata della epidemia – 

per esclusivo motivo del Covid sono soltanto il 2,9 per cento del totale, 

che è di circa 130.000 morti: si tratta insomma di circa 3.783 deceduti per Covid
. 


Orbene, purtroppo succede che chi si azzardi anche soltanto a leggere in pubblico i dati contenuti nel documento, peraltro di fonte pubblica, per cercare di capire come stiano davvero le cose, venga immediatamente schernito, perfino insolentito, in ogni caso indotto a tacere: 

 
si veda la reazione scomposta e molto aggressiva di Licia Ronzulli – di Forza Italia  
che durante una trasmissione televisiva ha letteralmente aggredito, inveendo, contro in malo modo, Enrico Montesano, il quale appunto stava soltanto leggendo i dati di cui sopra, senza aver neppure aver avuto il tempo e il modo di commentarli. 

Niente da fare: Montesano è stato ridotto al silenzio.


E allora, prima che riducano al silenzio questo giornale, cerco qui di ragionare su questi dati,
per tentare di cavarne qualcosa di sensato, lontano dalle polemiche e dalle aggressioni. 

 

Per farlo bisogna farsi guidare dalla logica, che invece sembra latitare in molte delle espressioni ciecamente filogovernative.


Partiamo da un fatto: per due anni giornali, televisioni e Governo, oltre che i virologi compatti, ci hanno detto e ripetuto che i morti per il Covid crescevano a dismisura,
fino a giungere alla cifra di circa 130.000 complessivi, come da tutti costoro ribadito pochi giorni or sono. 

Ciò significa che il Covid è stato ritenuto e presentato come causa di un effetto letale, 
come causa della morte di tutte quelle persone. 


Ma è proprio così? 

Ne dubito molto. 

Vediamo perché.


L’Istituto superiore di Sanità ci dice, distinguendo come si deve, 

che il Covid è stato causa unica ed esclusiva di decessi in una percentuale 

del 2,9 per cento sul totale, vale a dire di 3783 decessi su 130.468: 

queste persone non soffrivano di alcuna patologia 

e sono morte in seguito al Covid soltanto. 


E fin qui nulla da obiettare. 

Il documento ci dice ancora che a soffrire già di una patologia, 

prima di ammalarsi di Covid e poi a morire, è stato l’11,4 per cento dei pazienti; 


di due patologie, il 18 per cento dei pazienti; 

 

di tre o più patologie, il 67,7 per cento dei pazienti. 


Ciò significa che in tutte queste situazioni, che coprono il 97,1 per cento di tutti i casi,

il Covid è apparso quando già queste persone erano ammalate di varie patologie 

(una soltanto o parecchie). 


Va notato che non si trattava certo di raffreddori o mal di denti, 

ma di patologie molto serie che vengono puntigliosamente censite dal documento:

per esempio, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, ictus, 

broncopneumopatia cronica ostruttiva, cancro attivo negli ultimi 5 anni, 

epatopatia cronica, malattie autoimmuni. 


Ebbene, dal punto di vista logico, è corretto affermare che tutte queste persone siano decedute a causa del Covid? 

No, anche se la propaganda martella incessantemente in tal senso.



L’errore logico di sapore sofistico che una tale impostazione di fondo racchiude 
sta emblematicamente inscritto nel celebre motto che suona “post hoc, ergo propter hoc”, 
secondo il quale, come si sa, ciò che segue è causato da ciò che precede, 
semplicemente in base a una estrinseca cronologia degli eventi 
e senza riguardo alcuno per il legame funzionale fra gli stessi. 

Come dire, per esempio, che cause del fatto che un’auto mi abbia investito mentre attraversavo la strada sono in egual modo la eccessiva velocità tenuta dall’investitore e la circostanza che io sia uscito di casa: 
e ciò perché appunto l’investimento è avvenuto “dopo” il mio uscir di casa.


Sesquipedale sciocchezza questa,
dal momento che non è ravvisabile alcun legame funzionale fra l’uscir di casa 
e l’esser investito da un’auto troppo veloce. 

Ma allora – vien da chiedersi – quando un evento trovi origine in due o più cause, come si deve intendere la faccenda? 


Per capirne qualcosa, ci viene in aiuto la scienza del diritto, che di cose del genere si occupa da sempre. 

Questa ci dice che in presenza di due o più cause di un evento, 
esse vanno tutte collocate sul medesimo piano causativo, 
vanno cioè tutte e ciascuna considerate concause equivalenti dell’evento, tranne in un caso: 

quando una di queste, già esistente o sopravvenuta, sia da sola capace di produrre quell’evento, anche in assenza delle altre.


Facciamo un esempio di scuola per quest’ultima evenienza.

Tizio viene investito e, condotto in ospedale, muore in un incendio che, improvvisamente scoppiato, distrugge il reparto ove era ricoverato. 
Anche se l’impatto automobilistico fosse stato in sé capace di produrre la morte, 
questo nesso di causalità è interrotto dal fatto che la seconda causa sopravvenuta 

– l’incendio – da se sola è capace di provocare il decesso, ha cioè inaugurato una nuova e autonoma sequenza causale indipendente dalla prima e produttiva del fatto dannoso, la morte del malcapitato.


Allo stesso modo, per affermare che il Covid, sopravvenuto a una o più gravi patologie già esistenti, sia stato causa di morte esclusiva del 97,1 per cento dei deceduti – tanto da poter sensatamente parlare di morti per Covid – bisognerebbe esser certi che tutte quelle persone siano morte a causa del Covid, inaugurando una nuova e autonoma sequenza causale, e non per le altre patologie sofferte: 
cosa che evidentemente non è possibile asseverare.


Ne viene che la sola affermazione logicamente corretta in proposito ci dice 

che quelle numerose persone son decedute a causa di tutte le patologie 

che soffrivano (da una a “n” patologie), compreso il Covid: 

ma nulla di più o di meno. 


Conclusione: dire, come si dice ossessivamente, 

che il Covid ha ucciso 130.000 persone non solo è falso, 

ma è qualcosa di peggio. 


È una scemenza.

24 ott 2021

AVANTI POPOLO

E il bello è che, nella giornata degli idranti e dei lacrimogeni sugli inermi, 

qualcuno ha anche il coraggio di sostenere di esser stato eletto sindaco di Roma. 

Eletto da chi ? 

Nel vuoto cosmico dei seggi disertati da sette romani su dieci? 

Quella stessa mattina – a urne aperte – venivano amorevolmente manganellati i portuali di Trieste, 

spazzati via dalle truppe del ministero dell’interno. 

Immagini che fanno storia: il ragazzone Stefano Puzzer in lacrime, a terra, le mani strette in quelle dei compagni.

 L'Italia guarda, non dimenticherà.  

Vede perfettamente il senso dello spettacolo: 

spazzare via milioni di italiani fastidiosi, cioè ancora vivi e svegli. Milioni: troppi.  

 

Probabilmente destinati addirittura a dimezzarsi, come popolazione complessiva. 

Lo ha detto l’Istat, di recente: siamo un paese da 32 milioni di persone. 

Avanti di questo passo ci depopoleremo, semi-estinti dalla dilagante denatalità che affligge                             un sistema sociale ininterrottamente massacrato dal 1992, quando sua eccellenza Mario Draghi     salì sul panfilo Britannia. 

 Le privatizzazioni, la guerra al popolo italiano sotto forma di dismissione del più importante sistema     pubblico-privato del mondo.

 Da lì in poi, come canta Edoardo Bennato, il seguito è una vergogna: mere conseguenze.  

Fino al venerabile Monti e alla genuflessione dei sindacati-fantoccio, oggi presi in braccio dall’imperatore in persona, mentre la generalità dei registrati all’anagrafe della repubblica – archiviata la Costituzione – viene sottoposta a vessazioni grottesche, medievali, verso un futuro      di stampo cinese

. La patente a punti, per sperare di restare semi-cittadini (ma sotto ricatto, per sempre).  

Un gioco antico: prima ti tolgo tutto quello che hai e poi te ne restituisco una parte,                          con il peggior autoritarismo paternalistico: ma solo se farai quello che dico io.  

Di mezzo c’è stato un mare infinito di sciagure, minacce e cedimenti:

 le crisi finanziarie pilotate, i terrorismi fatti in casa. 

Oggi vale tutto, anche rincarare la benzina in modo folle.  

E raccontare, in modo altrettanto folle, oltre che ridicolo, che sarà l’auto elettrica a salvare il pianeta dall’esuberanza siderale del Sole.

  Eppure, Trieste lo mostra chiaramente: c’è un potere così vuoto e disperato da aver paura di cento ragazzi armati soltanto della loro tuta gialla, ovvero della loro irriducibile dignità di lavoratori.  

In una parola: armati della loro umanità. 

Alla faccia delle carnevalate incresciose che il copione sforna, tra porte infere e decreti varati a freddo,       senza anestesia, tra gli alalà degli zombie politici presi in ostaggio, ipnotizzati da una sceneggiatura scritta altrove, lontanissimo da noi. 

Ecco il punto: il mondo ci guarda.  

Nei giorni scorsi, mentre la stampa nazionale taceva (che strano), la protesta di Trieste campeggiava sulle prime pagine dei quotidiani europei. 

A renderla visibile ha poi provveduto il Viminale, alla vecchia maniera: sprangate e getti d’acqua contro lavoratori in sciopero, decisi a far valere i diritti costituzionali dell’intera comunità italiana. 

Prima ti ignorano, poi ti deridono. 

 Ora siamo alla terza fase della dinamica sintetizzata da Gandhi:

 ti combattono, temendo che sia vicinissimo il momento numero quattro, l’ultimo. 

La tua vittoria.  

Sempre nella giornata degli idranti (e delle elezioni-fantasma, a Roma e non solo),                                         sui reticenti foglietti del post-giornalismo italico circolava la seguente indiscrezione:

 insieme al suo intero governissimo virtuale, sua eccellenza si starebbe preparando                            a metter fine alla presente pagliacciata, lasciando decadere il regime di apartheid il 31 dicembre.  

Qualcuno si domanda:  

come dare credito, ai pericolosi buffoni che da quasi due anni hanno sequestrato la vita degli italiani?  

Gli ottimisti, al contrario, scommettono su un allentamento ancora più rapido, magari truccando un po’ i numeri della campagna zootecnica di digitalizzazione di massa.  

Trieste, comunque, cambia le cose. 

Non ti aspetti più niente, da chi ti prende a secchiate in faccia. 

 Lo fa perché ti teme, perché sa che non sei solo. 

Sa perfettamente che milioni di esseri umani stanno già inceppando la macchina, 

letteralmente, con un gesto semplicissimo: astenersi dal partecipare.

 

 Stare a casa: adesso sì. 

Far saltare – senza muovere un dito – i numeri della roulette in cui sono maestri, 

i bari e i ladri di vite umane, di destini, di gioventù.

 

 I ladri di felicità.

5 set 2021

Ecco come vogliono ridurci. Dementi, smidollati, ebeti, malleabili, inconsistenti, senza pensieri e valori. “Non avrai nulla e sarai felice”: è questo il messaggio lanciato da un giovane dal sorriso smagliante sulla piattaforma istituzionale del Forum di Davos, quell’organismo internazionale che abbiamo imparato a conoscere per la sua capacità di prevedere e indirizzare gli eventi futuri a livello globale. Era il 2017 e nelle sue Otto previsioni per il mondo nel 2030 metteva al primo posto proprio la fine del concetto di proprietà di beni da parte dei cittadini, per sostituirlo con quello di fruizione di servizi divenuti gratuiti grazie al rimpiazzo del lavoro umano con le nuove intelligenze artificiali. Era il sogno distopico raffigurato in Benvenuti nel 2030, dove la proprietà privata e la privacy non esistono dalla danese Ida Auken,sempre sul sito del Forum di Davos (l’articolo originale, come si può verificare dal link https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/, risulta stranamente rimosso, analogamente a quanto abbiamo visto con il documento della Rockefeller Foundation). Un futuro, molto prossimo, in cui insieme al concetto di proprietà viene abolita anche la privacy, dove non solo tutto ciò che faremo, ma anche ciò che penseremo o sogneremo verrà monitorato, con il fine, inequivocabile per i fautori del nuovo mondo, di realizzare un bene collettivo superiore e traghettare l’umanità verso un futuro idilliaco, rispettoso dell’ambiente e inclusivo. Ma ora gli aedi del Grande Reset hanno deciso di compiere un ulteriore passo avanti nella riscrittura della storia dell’umanità, con l’asserzione di una tesi alquanto rivoluzionaria: nella vita la felicità non conta! A sostenerlo è la ricerca di due psicologi di provenienza accademica, Shige Oishi ed Erin Westgate, pubblicata sul sito del World Economic Forum nella sezione relativa al futuro della salute e del benessere della Agenda Globale. Secondo la tesi riportata, sarebbe giunta l’ora di superare sia la concezione edonistica della felicità, intesa come raggiungimento di un piacere immediato, sia quella eudaimonistica aristotelica, legata alla ricerca e al perseguimento di uno scopo di bene comune. Il termine eudaimonìa deriva dal greco eu, bene e daimon, traducibile come “essere divino”, “genio”, “spirito guida”‘ o “coscienza”: etimologicamente significa “essere in compagnia di un buono spirito”. La felicità secondo Aristotele consisteva nel realizzare la propria natura e, poiché l’essenza dell’uomo è rappresentata dalla ragione e dalla virtù, essa non potrà mai essere che nella saggezza. Tale teoria ha ispirato e dato vita a innumerevoli correnti di pensiero e da sempre l’uomo si interroga su cosa significhi vivere bene, essere felici, sviluppare pienamente le proprie potenzialità e peculiarità, tanto che diversi ordinamenti nazionali riconoscono tali ambizioni come diritti costituzionalmente sanciti. Ma lo studio dei due accademici sembra d’un colpo demolire tutto il sapere filosofico e ontologico esistente per proporne uno nuovo, più in linea con la società contemporanea. Per vivere bene, sostengono, non è importante essere felici o perseguire degli obiettivi, ma occorre condurre una vita psicologica “ricca”, laddove con questo aggettivo si intende significativa, caratterizzata da “esperienze interessanti in cui la novità e/o la complessità sono accompagnate da profondi cambiamenti di prospettiva”. Immancabile nella società dell’Erasmus, lo studio all’estero viene citato come esempio di una simile ricchezza, poiché rappresenterebbe uno stimolo a riconsiderare i costumi sociali della propria cultura di provenienza. Dunque, un’esperienza per qualificarsi come psicologicamente arricchente non deve essere positiva, può anche consistere in una difficoltà, come vivere la guerra o un disastro naturale o persino eventi dolorosi della propria vita, come la malattia o la disoccupazione. L’autrice dello studio, ricordando i propri viaggi negli ostelli quando era giovane, afferma che ci sono momenti della nostra vita in cui accettiamo il disagio e diamo la priorità all’esplorazione. Se, come mostrano le ricerche, le persone tendano a diventare più felici con l’avanzare dell’età, è perchè “invece di dare la priorità alle esperienze impegnative, danno la priorità alle cose familiari che le renderanno felici; invece di incontrare nuove persone, danno la priorità alla famiglia e agli amici intimi. Quelle cose aumentano la felicità, ma possono diminuire la ricchezza psicologica”. Perciò la stabilità e la solidità che si raggiungono con la maturità sarebbero forieri di felicità, ma nemici della ricchezza psicologica, che prevede invece un turbinio di esperienze, siano esse positive o negative, e di cambiamenti di prospettiva. È l’apologia dell’identità liquida, che fluttua da un lido a un altro senza una meta e il cui contenuto prende ogni qualvolta la conformazione del contenitore che lo ospita. Un vivere facendosi trasportare dagli eventi, senza la ricerca eudaimonistica e propositiva della propria natura, del proprio desiderio individuale capace di saldarsi con la legge morale e di elevare l’uomo. Nessuna priorità viene concessa all’amore, alla famiglia, alla dedizione per il proprio lavoro, né tantomeno alla virtù ed al sapere socratico. Per avere una vita psicologicamente ricca, l’importante non è neanche vivere, ma sopravvivere, come fa una pianta che resiste alle intemperie e si adatta all’ambiente circostante. È il grande reset della natura umana, che vede quel 2030 pauperista e nichilista fantasticato a Davos sempre più vicino.

31 lug 2021

Un medico convinto che lo scopo primario della scienza medica sia quello di salvare vite umane

 R.I.P.

«Io mi sono esposto molto, in prima persona, ovviamente rinunciando ai miei affetti e alla mia vita privata», ha detto Giuseppe De Donno in un recente video, mentre lasciava l’ospedale di Mantova.

«Ho ricevuto tantissime critiche, tantissimi attacchi. E capisco anche che, quando uno si espone così, in modo mediaticamente violento, può starci che venga poi attaccato a sua volta. Però, quello che mi interessava era salvare più vite possibile».



Come tutti ormai sanno, il dottor De Donno è stato trovato morto nella sua abitazione.

Ufficialmente si è trattato di suicidio, ma ci sono moltissime persone che dubitano di questo.

Il motivo, secondo queste persone, è che De Donno fosse un personaggio scomodo,
che dava fastidio al potere perché aveva proposto una cura che le case farmaceutiche, ovviamente, non volevano.


Inoltre, dice qualcuno, in un un futuro processo, De Donno sarebbe stato un testimone scomodo, perché aveva tante cose da raccontare.

In realtà, per adesso, di processi del genere in vista non ce ne sono.

Ma ormai, De Donno non era più una minaccia per nessuno, visto che la sua cura al plasma è stata affossata mediaticamente, e sepolta per sempre, con la complicità dell’intera classe giornalistica.

E’ proprio questo, secondo me, il motivo che l’ha ucciso, che l’ha portato a togliersi la vita.


De Donno non riusciva a capire, non riusciva ad accettare che,

pur avendo trovato una cura valida per il Covid, nessuno fosse interessato a utilizzarla
.


Io gli avevo parlato, qualche mese fa, in occasione del mio video “Covid, le cure proibite”,
e già allora avevo avuto la netta sensazione di parlare con un morto.

L’uomo era fisicamente vivo: dalla sua bocca uscivano parole sensate e comprensibili.

Ma l’anima era già morta, se n’era già andata: non c’era più fiamma, dentro di lui.

De Donno era un uomo spento: distrutto dalla sua incapacità di comprendere
perché nessuno fosse interessato ai risultati che aveva ottenuto nel suo ospedale.


Me l’avrà ripetuto almeno tre volte, nella telefonata.


«Io non capisco, ci sono i risultati, ci sono le persone guarite, sono lì da vedere: che cos’altro vogliono?».


Io provai a spiegargli che la sua cura in realtà rappresentava un problema,
per il grande piano che era in svolgimento, in quel momento.


Ma non è facile spiegare certe cose a una persona che crede ciecamente nella medicina

e che, fino a quel giorno, ha pensato che lo scopo primario della scienza medica sia quello di salvare vite umane.

Se si vuol cercare di capire le origini di un gesto estremo come il suo, provate veramente a pensare a cosa significhi, per una persona che per tutta la vita ha creduto fermamente in qualcosa, se di colpo quella cosa gli sgretola davanti come una statua di pastafrolla.

Non rimane niente in cui credere, non rimane niente per cui lottare.

E quindi, l’anima se ne va: l’anima si ritira.

E poi aspetta, pazientemente, che anche il corpo la raggiunga.


In ogni caso, che si sia trattato di omicidio o di suicidio, il succo della questione non cambia:

Giuseppe De Donno è stato ucciso da un sistema sanitario e mediatico

che ha voluto toglierlo di mezzo perché lui proponeva qualcosa che il sistema, in quel momento, 

non voleva.


E adesso sveliamo perché non lo volevano, visto che proprio oggi abbiamo davanti agli occhi la conferma di questo.

Avrete letto tutti che, nel prossimo autunno, saranno autorizzate dall' Unione Europea cinque terapie per curare il Covid.

Bene, quattro di queste terapie sono anticorpi monoclonali.

Cosa sono, esattamente?


Facciamocelo spiegare dall’infettivologo Lorenzo Mondello, intervistato dalla rivista “InSanitas”.

«Gli anticorpi monoclonali sono la copia, realizzata dall'industria della biologia molecolare,

dell’anticorpo presente nel siero iperimmune del guarito da Covid-19».


Ma guarda che coincidenza: proprio quello che usava De Donno, 

il siero iperimmune dei guariti da Covid.


C’è una grossa differenza, però, tra il siero dei guariti utilizzato da De Donno e la copia fatta in laboratorio:

il siero dei guariti costa 80 euro a sacca e non si può brevettare (perché è una donazione, da un cittadino a un altro cittadino),

mentre gli anticorpi monoclonali si possono brevettare e, guardacaso, verranno a costare circa 2.000 euro a dose.


Quindi, pensate a De Donno: cornuto, e pure mazziato.


Non solo gli hanno negato la possibilità di veder applicata con successo la sua cura, 

quando l’ha scoperta, ma – dopo che tutti si sono affannati a dire che non funzionava –

ha visto la stessa tecnologia replicata in laboratorio,

che verrà venduta con grandi profitti in tutto il mondo.



Secondo me ti viene voglia di suicidarti non una, ma dieci volte, di fronte a una cosa del genere.

E pensate che lo stesso Burioni era stato lungimirante, l’anno scorso:
mentre da una parte minimizzava il potenziale della scoperta di De Donno,
dall’altra già anticipava l’avvento delle monoclonali prodotte in laboratorio.


Era il maggio del 2020, e Burioni diceva:

abbiamo già iniziato, ma ci vorrà almeno un annetto, prima di riuscirci; però ci arriveremo.

Sentitelo:

«Dov’è che questa cosa diventa molto interessante?
Diventa interessantissima perché, nel momento in cui riusciremo a stabilire con certezza che utilizzare i sieri dei guariti fa bene, avremo aperto una porta eccezionale per una terapia modernissima: quella che prevede, praticamente, l’utilizzo di un siero artificiale».

«Si aprirebbe una porta fantastica per una terapia che avrebbe un’altissima probabilità di essere sicura ed efficace: quella della produzione di anticorpi monoclonali umani (quindi, un siero artificiale) contro il coronavirus. Non è una cosa immediata, perché ci vorrebbe un annetto; ma si è già cominciato,
e quindi a questo punto l’orologio sta andando avanti a nostro favore».


“L’orologio sta andando avanti a nostro favore”,

ma ovviamente bisogna prima togliere di mezzo l’originale:

altrimenti la copia non potremo mai venderla a nessuno.


E così, togliendo di mezzo l’originale, non solo hanno distrutto l’esistenza di De Donno,
ma hanno anche condannato a morte tutte le persone che sono morte da allora ad oggi,
e che in molti casi avrebbero potuto essere salvate con il siero naturale.



Devo veramente aggiungere altro?

25 lug 2021

Ci vogliono proni e sottomessi

 È difficile capire se il vizio di fissare il dito, evitando di volgere lo sguardo alla Luna,
sia solo di noi italiani o un po’ di tutto il Pianeta, e fatta eccezione solo per certe sparute Comunità sciamaniche andine (peraltro a pericolo estinzione sia numerica che culturale).


Comunque evitiamo di parlare di vaccini e virus, ed invece concentriamoci sul fatto che meno di vent’anni fa
un vertice tra alta dirigenza Onu, multinazionali e Wto (Organizzazione mondiale del commercio)
ha lungamente ascoltato il parere di scienziati (demografi, economisti, agronomi, biologi, informatici) sul futuro dell’uomo e della Terra.

Scienziati e potenti hanno così trovato un punto d’accordo sul fatto che necessitasse accelerare
sulla teoria di fine secolo scorso sul controllo ovvero:

metà della popolazione con lavoro contrattualizzato sarebbe stata impiegata per controllare e monitorare la vita di tutti gli umani),

che le nazioni avrebbero dovuto varare politiche di contenimento demografico e delle nascite
(a tal proposito l’Onu ascoltava la relazione dei demografi cinesi),

che si sarebbero dovute inserire norme utili a limitare bisogni e desideri umani
(limiti all’acquisizione di patrimoni, alla tesaurizzazione monetaria, all’acquisto di beni, alla fruizione di servizi turistico-ristorativi),

che la virtualizzazione delle attività umane avrebbe permesso di limitare la mobilità degli individui e gli stessi bisogni,

che gli obblighi tecnologico-cibernetici avrebbero limitato a meno persone la fruibilità e l’ambizione.



Noi piccoli italiani ci siamo così visti calare per legge regionale l’obbligo alla contabilizzazione calorimetrica domestica, che permette (o dovrebbe) ad un ufficio regionale di conoscere temperatura ed uso del riscaldamento di ogni condomino:
chi non è in regola con la contabilizzazione vive in una casa fuorilegge non certificabile energeticamente.

Poi c’è l’obbligo d’aggiornare ogni due anni auto (moto, camion) alla categoria ecologica euro:
siamo arrivati all’euro sette e si pensa già all’euro otto, e chi non s’adegua viene multato.

Quindi c’è la tracciatura e la politica bancaria d’indirizzo: i soldi depositati in banca non sono certo a disposizione del risparmiatore italiano, ma in uso esclusivo del sistema bancario europeo

Ne deriva che, se usassimo una somma consistente del nostro risparmio per comprare un determinato bene,
troveremmo i freni della banca, che ci consiglierebbe di usare diversamente i nostri soldi, casomai per comprare titoli, obbligazioni o fondi assicurativi.
“Ma perché vuole compare un immobile o un’auto per suo figlio – ci direbbe il consulente –
ricorra a casa in fitto ed auto a noleggio lungo termine, usi i suoi risparmi per un investimento da noi consigliato”.

E stesso discorso per i viaggi, il turismo, che ormai sarà sempre più appannaggio dei veri ricchi:
la ricerca cibernetica offre al resto della popolazione le vacanze virtuali.

Queste ultime permettono che non vi siano spostamenti umani, né dispendio di risorse economiche da parte dell’individuo, che rimarrebbe in casa a Ferragosto collegato al computer (casomai con lieve sedazione) con maschera sul viso e tattile alle mani, in modo da avere la quasi completa sensazione pseudo onirica d’essere in vacanza ai Tropici come al Sestriere.


Anche i passatempi vengono decimati per il bene della Terra:

all’indice il restauro d’auto e moto d’epoca (ritenuto non politicamente corretto e nemico della green economy),

così anche la nautica da diporto,

la pesca e la caccia,

i viaggi con mezzi propri,

i party con gli amici,

il bricolage in genere.


Nella sfera di contenimento dei popoli

ci sono le politiche d’indirizzo alla non riproduzione umana,

l’incentivo all’eutanasia per motivi economici (il caso di chi cade in povertà irreversibile per motivi fiscali, bancari, giudiziari),

i motivi criminologico-scientifici ed economici alla base della reintroduzione della pena capitale nell’ordinamento degli Stati occidentali,

il diniego delle cure per motivi sanitari e previdenziali.



Direttamente collegata a queste iniziative

ci sarebbe la nuova politica detentiva, quella che potrebbe spaccare la politica italiana:

ovvero tra chi vorrebbe riforme che riducano la detenzione a pochissimi casi,

e chi invece perorerebbe un uso massivo della detenzione casomai affidandola a privati ed a strutture multinazionali specializzate (in Usa vi operano da anni).

E questo perché il carcere sottrae per periodi più o meno lunghi l’individuo dal circuito sociale,
evitando che concorra sul lavoro, sul divertimento, sulle opportunità varie:
in pratica il carcere sottrarrebbe gli individui dall’affollato gioco dei bisogni e delle ambizioni.


Perché queste politiche abbiano presa occorrerebbe pianificare una politica educativa:

ecco che nelle scuole sono stati introdotti testi

che mirano a formare bambini non ambiziosi,

ciberneticamente controllabili,

con amorfa concezione sessuale,

irreggimentabili e facilmente disgiungibili dalla famiglia d’origine e tradizionale.


Ecco che il “green pass” è solo una goccia nel mare delle limitazioni che verranno introdotte “per il bene del Pianeta”.



E non pensiate che basti chiudersi in casa senza sortire nemmeno per la spesa:
tra non molto (i primi a subirlo saranno i condomini che hanno ricevuto il 110 per cento)
l’amministratore di condominio, che è per l’ultima riforma un vero e proprio sostituto d’imposta,
busserà gentilmente al vostro uscio e vi chiederà di compilare un foglio per il suo archivio
e per l’ufficio regionale che già monitora la “contabilizzazione calorimetrica”.

Obiettivo: categoria energetica e classe euro del vostro frigo, lavatrice, scaldabagno, tostapane.


Ora c’è il “green pass”, e pare che qualche sindaco lo voglia estendere (con delibera comunale),

nell’area di propria competenza, alle frequentazioni casalinghe,

vietando d’invitare a casa i non congiunti privi di certificazione sanitaria.



Il mondo si sta stringendo, e ce lo dicevano già a fine Novecento.

23 lug 2021

Anche con il vaccino sei contagioso

 Un dibattito sempre più feroce, quello che accompagna la possibilità di introdurre il green pass
come elemento vincolante per avere accesso a una vita normale,
vietando ai non vaccinati l’ingresso agli eventi pubblici, ai bar e ai ristoranti.

Con le tensioni già divampate in Francia, dove i cittadini sono scesi in strada per protestare contro Macron
e il suo programma che renderà di fatto impossibile la quotidianità a chi non si è ancora sottoposto alla somministrazione.

E l’Italia pronta a sua volta a imitare l’esempio transalpino.

 
Tensioni figlie anche di una comunicazione imprecisa, contradditoria.


Come riconosciuto dal presidente dell’ordine dei medici di Roma Antonio Magi, intervistato da Radio Radio sul tema:

" è sbagliato innanzitutto sostenere che i non vaccinati siano un pericolo per gli altri,
e le troppe voci sull’argomento confondono gli italiani, anche perché ogni esperto presenta le proprie tesi come verità assoluta.
Meglio dire ‘non so nulla’ piuttosto che dare un proprio parere facendola passare per una evidenza scientifica”.



Non è che io faccio la vaccinazione e proteggo gli altri – ha spiegato Magi a Radio Radio –.

Innanzitutto io proteggo me stesso.

Assolutamente, il vaccino non protegge dal poter essere un ‘contagiante’.

Sia il vaccinato che il non vaccinato lo sono. 



Qual è il problema? 

Trovandosi alcuni soggetti a rischio, il vaccinato – non sa se in quel momento è portatore – può essere parte infettante.
Essendo vaccinato posso essere positivo. 

Far passare il messaggio che il non vaccinato è un pericolo pubblico per gli altri no! 


E’ un pericolo per se stesso, può prendere la malattia con tutte le sue fasi”.



Altro problema – ha aggiunto Magi – è la corretta comunicazione medico-paziente.
Se scopro che uno dei due bara l’alleanza che c’è tra i due si rompe e c’è la diffidenza.
Per vaccinarsi non ci vuole la diffidenza. 

Non ci vuole un messaggio di scontro ma un messaggio di convincimento.


Questo si ha con una informazione trasparente.

 Purtroppo però è stato un momento particolare.
È difficile trovare un buon medico comunicatore, molto spesso non sa comunicare, l’empatia è fondamentale.
Nelle facoltà di Medicina andrebbe insegnato anche come comunicare con il paziente.
Meglio dire ‘non so nulla’ piuttosto che dare un proprio parere facendola passare per una evidenza scientifica.


L’evidenza scientifica si ha nel tempo”.

5 lug 2021

In ginocchio da Te

Questa storia dell’inginocchiarsi o meno sta cominciando a diventare snervante.

A maggior ragione che si tratta di un gesto che nulla ha a che vedere con il razzismo.

Quest’ultimo – si dice sempre – si combatte col rispetto dell’altro.

Ma inginocchiarsi non è un segno di rispetto, ma di sottomissione, di supplica, di remissività.


Inginocchiarsi non significa “io ti rispetto come mio pari”, ma “io mi sottometto a te come mio superiore”.


Attenzione su questo punto.


Due uomini che si rispettano a vicenda stanno in piedi, si guardano negli occhi e usano reciprocità.

Un uomo che si mette in ginocchio davanti a un altro uomo si sta sottomettendo:

esattamente ciò che vogliono il movimento “Black Lives Matter”, da cui è partita tale campagna, e i fautori del “multikulti”.



Tutto è partito dalla famigerata protesta del movimento per i diritti dei neri (o presunto tale)
per le vittime della violenza della polizia, che ha visto gli agenti bianchi incaricati di mantenere l’ordine
mettersi in ginocchio dinanzi ai contestatori.

In un’epoca in cui prevale la “psicologia del gregge”, tale gesto è diventato virale nel giro di pochissimo tempo, ed è assurto a simbolo della lotta contro il razzismo e la discriminazione.

Ma, si diceva, il razzismo si combatte col rispetto, cioè trattandosi alla pari, non sottomettendosi, come il gesto di inginocchiarsi sottintende.


Il punto è che l’obbiettivo di gruppi come il “Black Lives Matter” non è semplicemente ottenere rispetto e parità di condizioni:

ciò che perseguono è la sottomissione da parte degli altri gruppi, di quelli diversi da loro.


Gli stessi tifosi del politicamente corretto e del multiculturalismo coatto non vogliono semplicemente che le varie etnie convivano:

vogliono che alcune – giudicate svantaggiate o “vittime” – prevalgano su altre e si rivalgano per i patimenti (immaginari) loro inflitti.



Chi conosce il “Black Lives Matter” sa benissimo che non si tratta di un movimento per i diritti civili, ma di un gruppo di estrema sinistra, fortemente ideologizzato e sostenitore di una sorta di “lotta di classe” in chiave razziale, dove i neri sono i proletari e i bianchi i borghesi.




Sono gli eredi diretti delle “Pantere Nere”, il gruppo suprematista nero che negli anni Settanta si distinse per i suoi toni aggressivi, per il suo stile paramilitare e per il suo sostegno alla lotta violenta contro il “predominio dei bianchi” nella società americana: 


il loro obbiettivo dichiarato non era portare più uguaglianza tra i due gruppi, ma far avanzare i neri a discapito dei bianchi. 


Non diversamente, il “Black Lives Matter” sostiene di lottare contro il “White privilege”, che è lo stesso.


Non vogliono parità di trattamento, ma la sottomissione da parte di quelli che vedono come gli eterni nemici dell’affermazione della comunità nera:

i bianchi, colpevoli per il fatto stesso di essere tali.

Non si tratta di un movimento pacifista nato sull’onda dell’indignazione della comunità afro-americana per le violenze ai loro danni, come la narrazione politicamente corretta vorrebbe far credere:

ma di un movimento di estrema sinistra che pratica una diversa e ancor più subdola forma di razzismo, in quanto nascosta dietro la maschera della giustizia sociale e dei diritti civili.



Questo significa che chi, aderendo a tale campagna, si inginocchia per dimostrare la sua solidarietà o il suo antirazzismo, in realtà e sia pure in maniera inconsapevole, si sta inginocchiando dinanzi alle rivendicazioni di un gruppo di marxisti neri che non fanno mistero della loro ostilità nei confronti dei bianchi:

non è forse anche questa una forma di razzismo?


Inginocchiarsi, in questo caso, non è un modo per dimostrare solidarietà:

è un atto politico che indica vicinanza a quel gruppo e a quell’ideologia.



Non è un gesto di rispetto e di parità, ma di sudditanza – anzitutto psicologica – nei confronti di quella mentalità
che, in nome della lotta alle discriminazioni, ne vorrebbe istituzionalizzare o incentivare delle altre.

Ma, soprattutto, è il segno più chiaro ed evidente di quanto gli occidentali siano vittime del senso di colpa indotto, che li spinge a vergognarsi di sé stessi e a mettere in atto questo tipo di comportamenti.

Tutti coloro che finora si sono messi in ginocchio non hanno manifestato contro il razzismo,
ma a favore di una sua diversa forma, oltre che di quella specie di “etno-comunismo”
che vede nei bianchi l’origine di tutti i problemi di questo mondo e la relativa civiltà occidentale
come il sistema da distruggere per l’avvento di un mondo più giusto e solidale.



Quindi, se davvero non si è razzisti, si stia in piedi e non si mandino segnali di sottomissione a movimenti e ideologie che razzisti lo sono dichiaratamente.