Parliamo di intere filiere industriali
come quella siderurgica e
quella delle centrali termoelettriche.
Le vicende dell’acciaio italiano sono plasticamente simboleggiate
dal fallimento di trent’anni di politiche industriali dell’acciaieria di Taranto,
negli anni ’80 il fiore all’occhiello della siderurgia europea ed oggi ridotta all’ombra di se stessa.
Non entreremo nel merito delle vicissitudini dell’ex “Italsider” di Taranto
in termini di danno ambientale causato al territorio e beghe giudiziarie ad esso connesso,
tutte cose che esulano dallo scopo di questo articolo
e che potrete comunque seguire con molto più profitto leggendo i resoconti di bravissimi giornalisti,
tra i quali vi consiglio senza dubbio la giornalista tarantina Annarita Digiorgio,
ma ci limiteremo a registrare le patetiche contorsioni logiche
legate al dilemma “green” di come renderlo a emissioni zero di CO2.
Eh sì, perché, tuttora, esso trae il suo fabbisogno energetico bruciando carbon coke ma, nell’ottica finto-green, adesso dovrebbe essere rimpiazzato da “energia pulita”.
Sì ma quale?
Le ipotesi sul tappeto sono due:
riconvertendo tutto in elettrico e alimentando lo stabilimento di Taranto con l’energia elettrica
prodotta dal fantomatico parco eolico offshore “Dorada”
(ricordate? Tempo fa parlammo qui di questo costruendo ecomostro che devasterà la skyline delle coste salentine, da Manduria a Santa Maria di Leuca),
oppure utilizzando il mitologico “idrogeno verde”, l’idrogeno ottenuto cioè per elettrolisi dall’acqua utilizzando energia elettrica prodotta da sole fonti rinnovabili.
Tuttavia, questa seconda ipotesi sarebbe ancora meno efficiente della prima in quanto, come è noto,
i rendimenti di conversione dell’energia elettrica in idrogeno verde trasportato via idrogenodotto sono dell’ordine del 59 per cento.
In altre parole, quasi la metà dell’energia elettrica da fonte rinnovabile così faticosamente prodotta (41 per cento) verrebbe persa nel processo di conversione.
In attesa che questo busillis venga risolto,
lo stabilimento di Taranto continua ovviamente a bruciare carbon coke ma a capacità ridottissima
(meno di un quarto della sua massima capacità produttiva)
mentre il rimanente fabbisogno di acciaio
è soddisfatto da quello proveniente dal sudest asiatico
che lo produce bruciando, neanche a dirlo,
quello stesso carbon coke che noi non vogliamo più avere tra i piedi.
In altre parole, per paura della CO2 emessa,
il brillantissimo risultato ottenuto in questi ultimi vent’anni
è stato quello di ridurre significativamente la produzione italiana di acciaio
ed imporre la trasformazione in elettrico a tappe forzate del grosso delle acciaierie,
di modo che oggi il 75 per cento dell’acciaio (16 milioni di tonnellate annue)
è prodotto con l’energia elettrica, appunto, a prezzi elevatissimi.
È il caso degli acciai speciali e di alta qualità che hanno raggiunto ormai costi proibitivi.
dal fallimento di trent’anni di politiche industriali dell’acciaieria di Taranto,
negli anni ’80 il fiore all’occhiello della siderurgia europea ed oggi ridotta all’ombra di se stessa.
Non entreremo nel merito delle vicissitudini dell’ex “Italsider” di Taranto
in termini di danno ambientale causato al territorio e beghe giudiziarie ad esso connesso,
tutte cose che esulano dallo scopo di questo articolo
e che potrete comunque seguire con molto più profitto leggendo i resoconti di bravissimi giornalisti,
tra i quali vi consiglio senza dubbio la giornalista tarantina Annarita Digiorgio,
ma ci limiteremo a registrare le patetiche contorsioni logiche
legate al dilemma “green” di come renderlo a emissioni zero di CO2.
Eh sì, perché, tuttora, esso trae il suo fabbisogno energetico bruciando carbon coke ma, nell’ottica finto-green, adesso dovrebbe essere rimpiazzato da “energia pulita”.
Sì ma quale?
Le ipotesi sul tappeto sono due:
riconvertendo tutto in elettrico e alimentando lo stabilimento di Taranto con l’energia elettrica
prodotta dal fantomatico parco eolico offshore “Dorada”
(ricordate? Tempo fa parlammo qui di questo costruendo ecomostro che devasterà la skyline delle coste salentine, da Manduria a Santa Maria di Leuca),
oppure utilizzando il mitologico “idrogeno verde”, l’idrogeno ottenuto cioè per elettrolisi dall’acqua utilizzando energia elettrica prodotta da sole fonti rinnovabili.
Tuttavia, questa seconda ipotesi sarebbe ancora meno efficiente della prima in quanto, come è noto,
i rendimenti di conversione dell’energia elettrica in idrogeno verde trasportato via idrogenodotto sono dell’ordine del 59 per cento.
In altre parole, quasi la metà dell’energia elettrica da fonte rinnovabile così faticosamente prodotta (41 per cento) verrebbe persa nel processo di conversione.
In attesa che questo busillis venga risolto,
lo stabilimento di Taranto continua ovviamente a bruciare carbon coke ma a capacità ridottissima
(meno di un quarto della sua massima capacità produttiva)
mentre il rimanente fabbisogno di acciaio
è soddisfatto da quello proveniente dal sudest asiatico
che lo produce bruciando, neanche a dirlo,
quello stesso carbon coke che noi non vogliamo più avere tra i piedi.
In altre parole, per paura della CO2 emessa,
il brillantissimo risultato ottenuto in questi ultimi vent’anni
è stato quello di ridurre significativamente la produzione italiana di acciaio
ed imporre la trasformazione in elettrico a tappe forzate del grosso delle acciaierie,
di modo che oggi il 75 per cento dell’acciaio (16 milioni di tonnellate annue)
è prodotto con l’energia elettrica, appunto, a prezzi elevatissimi.
È il caso degli acciai speciali e di alta qualità che hanno raggiunto ormai costi proibitivi.
I numeri fanno accapponare la pelle:
in soli 20 anni, siamo passati
da 31,6 milioni di tonnellate di acciaio prodotto nel 2006
a 20 milioni di tonnellate di acciaio prodotto nel 2023,
un calo del 37 per cento.
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